Se al dolore non so che posto dare

Dare una forma e un senso al proprio dolore sembra sempre più difficile, in una società che con la morte e la sofferenza riesce sempre meno a fare i conti”. Una società che non accoglie il limite e la fatica connessa, che fa del dolore una vergogna e una colpa.

Il perimetro è sicuro, abbiamo costruito steccati, recinti alti e a prova di lupo. All’interno le pecore sono al sicuro, stanno bene, si sentono invincibili. Poi, ci sono anche i cani che fanno la guardia e proteggono dall’esterno, danno indicazioni, prevengono comportamenti pericolosi…

A volte, però, in modo inaspettato accade l’inevitabile, a volte il lupo entra e porta via uno di noi. Atterriti, senza fiato, senza parole, cerchiamo riparo negli occhi di chi come noi ha condiviso tutto quel dolore, di chi come noi sente aprirsi il vuoto da sotto i piedi, quel dolore che toglie le parole, che ci fa sembrare piccoli, fragili, insicuri, esposti. Allora eccoci tutti insieme, intorno al grande tavolo, attoniti, impauriti, arrabbiati, stremati; chi non riesce a parlare e chi non si ferma, che è ancora frastornato e chi invece è già arrivato in fondo. Tutti che mi guardano, che chiedono una tecnica, una strategia, una spiegazione; mi arriva l’eco di quelle domande che non hanno risposta ma che ci ostiniamo a fare imperterriti. “Shomer ma mi llaillah” dice Isaia: a che punto è la notte… la risposta che arriva è sempre la stessa, come se ad Isaia rispondesse Qoelet con il suo “niente di nuovo sotto il sole”.

In questi anni mi sono trovato spesso a dover gestire situazioni simili, a dover aiutare la o le persone a circoscrivere un perimetro intorno al dolore, a dargli una forma e da lì a riuscire a regolare l’emozione.

In questi ultimi anni, però, mi rendo conto che la malattia, l’esperienza della perdita ed il dolore necessariamente connesso vengono vissuti come assurdi, contrari alla normalità delle cose, quasi che la morte e il dolore non abbiano cittadinanza nel mondo dei “Sempre-vivi”.

I genitori pensano di essere guastafeste se comunicano ai propri figli che il dolore esiste e non è un atto contrario alla vita, gli insegnanti temono di frustrare troppo gli alunni annunciando l’inevitabilità del limite e della fatica. Ecco che allora, ci direbbe Byung Chul ‘Han nasce la “società senza dolore”, la società che non accoglie il limite e la fatica connessa, la società che fa del dolore una vergogna, una colpa da lavare via, da evitare. In fondo questa moderna “società dei Sempre-vivi” (così mi piace chiamarci) ricorda molto la dimensione esistenziale che Heidegger definisce come la condizione in cui “ognuno è gli altri e nessuno è se stesso”. Se comincio a volermi sentire me stesso debbo dunque sentire il limite, misurarmi con l’appetito, la paura, la solitudine, il dolore.

Il dolore dunque non diventa più un movimento contrario alla vita, ma torna ad essere ciò che è da sempre, ovvero come uno dei nostri modi di vivere, certo uno dei meno graditi e gradevoli ma comunque una declinazione del vivere. Il dolore appartiene alla vita come la notte al giorno, l’inverno all’intero anno; possiamo dunque immaginare di escludere dalla vita le notti, i momenti freddi dal resto delle stagioni? Che cosa avremmo in cambio? Forse una vita più piena, più significativa?

Se guardiamo le cose fino in fondo, a pensarci bene quei pochi barlumi di senso che siamo riusciti a scorgere arrivano dai momenti bui, dal dolore del sentirsi soli, dal prendere atto che nonostante la nostra tracotanza a volte il lupo arriva e a poco valgono le urla del cane e la rabbia delle altre pecore… forse anche il pastore a volte conta proprio poco.

già pubblicato su @fuoritestata.it

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