Pensarsi ed essere pensati, dov’è il cuore del cibo?

Una fotografia che ritrae uno scaffale metallico in un negozio o supermercato giapponese. Ci sono tre ripiani. Sul secondo, quello più in vista, ci sono tanti piatti, posti uno di fianco all’altro, colmi di spaghetti che hanno al centro montagnole di condimenti vari, apparentemente molto elaborati. Sopra ogni piatto, come fosse fluttuante nell’aria, c’è una forchetta in posizione orizzontale, solo leggermente obliqua, che pare pescare dal piatto e sostenere un grosso boccone di spaghetti e condimento; in realtà il cibo è finto, anche se molto realistico, e ciascuna forchetta non sostiene gli spaghetti, da cui invece è sostenuta. Sul primo ripiano dall’alto ci sono gelati, probabilmente altrettanto finti, confezionati in plastica trasparente; sul terzo si intravede qualche dettaglio di prodotti analoghi.

Nel dilagare dei servizi di “food delivery”, tra pasti pronti e app che fanno la spesa al posto nostro, mettiamo forse da parte qualcosa che ci appartiene. Mentre risparmiamo il tempo dedicato al cibo, cosa ci perdiamo?

Ma ve lo ricordate il lockdown? Quante torte abbiamo preparato, quante lasagne, pizze, brasati, impasti complicati, manicaretti mai osati prima! E ricettari, blog di cucina, video degli chef: ciascuno aveva rispolverato il proprio “Artusi” personale e ne andava fiero. Quando tutto si è fermato, le mani, nelle cucine, hanno cominciato a creare. E mentre il mondo della cura era impegnato fino allo stremo delle forze, a occuparsi delle persone che morivano e stavano male, un’altra forma di cura prendeva spazio e ritrovava un tempo dedicato: la preparazione degli alimenti.

Dopo quel periodo abbiamo assistito a un proliferare di app e servizi che fanno la spesa per noi; ci cucinano il cibo, proponendolo in una box solo da scaldare; ci mandano a casa gli ingredienti per preparare una ricetta; evitano gli sprechi, salvando gli avanzi che possono essere acquistati a poco prezzo, ma senza possibilità di scelta (surprise bag!).

Per inciso: speriamo che non si arrivi a produrre di più, per il mercato degli acquisti antispreco!

Che strano capovolgimento delle cose: in un tempo sospeso e lento, obbligati dagli eventi, facevamo a botte per scendere a comprare il latte, o il cubetto di lievito mai acquistato prima; oggi siamo invitati a non pensarci più, a non perder tempo nelle corsie dei supermercati, a non sprecare energie davanti ai fornelli.

Lo ammetto, scrivo queste cose perché a me piace fare la spesa. La faccio “male”, senza una lista, ma immaginando “percorsi”: colazione per bambini, colazione per adulti, aperitivi, secondi di carne, pranzo della domenica, cena del martedì, e così via. Poi, forse si, qualcosa dimentico, ma intanto penso a me e a chi vive con me, piccoli e grandi, fantasticando su cosa cucinerò (o mi cucineranno, giacché non sono l’unica che in casa fa da mangiare per tutti).

In un mondo che ha ripreso a correre, senza fermarsi, mi chiedo, senza voler criticare, chi usa o meno questi servizi, quale nota stonata attira la mia attenzione. Da un lato, mi pare si faccia fatica a tollerare la frustrazione di un vuoto: non solo quello in cui si dichiara «è finito, non ce n’è più», ma anche quello del «non ce n’è, va fatto», che rimanda a un tempo in cui il cibo va immaginato, scelto, preparato, impiattato e comodamente gustato. Dall’altro, forse, intravedo da lontano il possibile abuso di una tecnologia che, fingendo di piegarsi ai nostri desideri, ci assoggetta al suo modo di fare, proporre, suggerire, relegando la questione cibo, nutrizione e alimentazione ad algoritmi e codici prevedibili e livellanti.

Il timore di una “madre” tecnologica che sappia meglio di me quanta fame ho e di cosa ho bisogno serpeggia nei miei pensieri, ma non è solo questo.

Temo che quella funzione che è in noi da sempre e che regola come ci nutriamo, oltre a cosa mangiamo, possa atrofizzarsi, venire meno, o essere messa duramente alla prova (già alimentarsi bene è un’impresa complessa). Spesso sento dire dalle mie giovani pazienti, che magari vivono sole e lavorano, che ordinare un pasto pronto – e molto calorico – è una tentazione irresistibile: una comoda alternativa per non pensare a sé, al proprio corpo e alle cose di cui si ha bisogno.

E mentre mi pare che l’amorevole occuparsi di sé svanisca sullo sfondo, riemergono in me, una per una, alcune scene dei film di Ferzan Ozpetek: tavolate infinite o un semplice panino mangiato in due. Scene in cui il cibo diventa simbolicamente condivisione, amore per l’altro, preparazione accurata e servita anche delle cose più semplici.

«È intorno alla tavola che la mia macchina da presa riesce a cogliere l’autentico che alberga nelle persone, le loro rivelazioni, anche sessuali. Capita allora che, di ciak in ciak, si rida, si pianga, ci si scapigli, si solidarizzi, si nasca, si muoia. Con una onestà, una intensità, ma soprattutto una profondità rara. L’universo-cibo è per me strumento di rivelazione che scardina l’ordine delle cose» (Ozpetek in un’intervista al «Corriere della Sera»).

Cibo come “pensare a” (a sé, ai propri cari, ai propri amici) e come “essere pensati”: è questo che in definitiva non vorrei rimpiazzare con il semplice click che aggiunge al mio carrello virtuale un piatto di risotto ai funghi, o i pomodori scelti da altri da mettere nel mio ragù.

già pubblicato su @fuoritestata

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