Io, certo di non avere certezze

Un'immagine astratta, sgranata, con una specie di onda fatta di tante sfumature di colori diversi - gradienti di arancio, azzurro e rosa - su uno sfondo scuro.

Sempre più accade di vedere schieramenti rigidi, posizionamenti pro o contro, soprattutto quando i temi sono di forte impatto emotivo. Ma questo si traduce nell’incapacità di cogliere la complessità e di stare realmente in ascolto dell’altro e in osservazione della realtà

“Ofelè fa el to mestè”1, un antico proverbio milanese per dire che ciascuno deve fare il proprio mestiere. Eppure, non sempre si riesce a fare i conti con la propria competenza che, ovviamente, non può che essere limitata.

Un tempo l’ex direttore del nostro giornale mi colpì con una sua arguta battuta. Gli uomini, mi disse, si possono suddividere in due categorie: quelli che sanno poco di tutto e quelli che sanno tutto di poco. Mi risuonò molto questa sua affermazione, un po’ perché a me da sempre piacciono i giochi di parole, ma soprattutto perché mi ha fatto pensare: nella mia prima materia, che è la filosofia, la maledizione di approfondire combinata all’asperità della materia stessa mi colloca in una terza categoria: quelli che sanno poco di poco.

Mi sembra però che, sempre più, la nostra capacità di parlare di ciò che sappiamo, di fare domande più che sentenziare risposte, sia inversamente proporzionale all’intensità emotiva dell’argomento trattato.

Più la notizia o l’argomento ci scuote e più ci sentiamo in dovere di posizionarci, di schierarci, di sposare questa o quella cibernetica.

Come si dice oggi: “Senza se e senza ma”. Bianco o nero. Contrario o a favore. In uno schieramento rigido e senza toni di grigio.

Bel casino però. Perché, in verità, se riusciamo a stare lontani dalla barbarie e dalla bestia che ognuno di noi porta dentro è proprio perché abbiamo tanti “se” e tanti “ma”.

I “se” e i “ma” trasformano il ruggito in belato, la marcia verso la verità nel passo claudicante del vecchio, o peggio ancora dell’ubriaco. A pensarci bene è proprio resistendo alla seduzione del “senza se e senza ma” che possiamo creare comunità, che possiamo praticare la gentilezza, la cura, la pietà.

A volte mi vergogno di dire il mestiere che faccio perché subito vengo coinvolto in discussioni decisamente assurde, spesso gestite e capeggiate da quello che: “Io non sono psicologo, però…”. Allora si crea una divertente (per modo di dire) scena di inversioni di ruoli; io che appaio insicuro, balbettante, afasico mentre i miei “concorrenti” sicuri, netti. Loro, “senza se e senza ma”.

Curiosa materia la psicologia, almeno quella che pratico io, quella dell’ascolto, della sospensione del giudizio, del silenzio degli sguardi, delle sopracciglia che si alzano. Tutto sommato semplice, assolutamente non scientifica, non molto seria, che non misura, non prescrive, che spiega sempre dopo, come l’umarell2 che ti spiega come mai il ponte è caduto ma mai una volta che sappia prevederla, magari prevenirla, quella caduta. Nonostante tutto questo però, o forse proprio perché sono orgoglioso della mia confusione e insicurezza, tutte le volte che sta per partire il dibattito della ricerca della verità vorrei gridare a piena voce: “Ofelè fa el to mestè”… Ma, si sa: il ruggito si trasforma in belato e spesso non esce neanche, con buona pace degli altri.

1. “Pasticciere, fai il tuo mestiere!”, in dialetto milanese.

2. Termine di origine bolognese, è il pensionato che ama seguire l’evolversi dei lavori nei cantieri e passa ore a guardare gli operai al lavoro, talvolta dispensando loro consigli non richiesti.

già pubblicato su @fuoritestata.it

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