È il momento di elogiare l’impotenza

Fotografia che ritrae, su sfondo bianco, un giovane molto magro, gracile e per niente muscoloso, a petto nudo, con un guantone da box rosso sul pugno destro, un parapugni rosso in testa, occhiali con montatura nera e un’espressione di sfida. Ha il braccio sinistro piegato davanti al torso e con la mano sinistra indica l’esile bicipite del proprio braccio destro.

Nella nostra società anche l’ingresso in una scuola o in una università, che dovrebbero essere i luoghi dell’educare e dell’apprendere, diventa un obiettivo da raggiungere. Ecco che torna preponderante la necessità di partire dalla propria debolezza e dalla propria fragilità per ritrovare il senso.

“Quando sono debole, è allora che sono forte” (Corinzi 2-12.10)

Cosa curiosa di questi tempi parlare di debolezza, di fragilità, di crepe della vita e dell’esistenza; ci si sente fuori moda, fuori tempo, fuori luogo.  Tutto intorno a noi rimanda a un’esistenza vigorosa, potente… insomma, una di quelle vite “che non devono chiedere mai”.

Tutti ricordiamo quella pubblicità popolarissima un po’ di anni fa, che mi torna in mente, la pubblicità di un profumo: un uomo forte, bello, duro, che non deve chiedere, che non deve chiedere mai! E questa era roba di ormai vent’anni fa e da allora di strada ne abbiamo fatta, però sempre nella stessa direzione, sempre nella direzione dell’efficienza, della bellezza, della potenza; percorsi rettilinei che non hanno mai presentato alcuna piega, alcuna curva.

Lo vediamo in ogni aspetto della vita, a iniziare dalla scuola con le sue graduatorie, i numeri chiusi, le medie matematiche, per finire con le attività sportive, ricreative, del tempo libero: qualsiasi area reclama l’idea di spingersi alla perfezione, scambia il piacere di fare con l’esigenza di farlo meglio di altri, di farlo per primi.  Passati i tempi in cui si giocava al pallone per passare una mezza giornata con gli amici, si dipingeva per divertimento, si suonava per fare un po’ di “rumore”.  Ora ci sono scuole di calcio, scuole di arte, scuole, scuole, scuole.

Ovviamente per poter garantire l’eccellenza anche queste scuole hanno livelli di ingresso da mantenere e allora si cade in un curioso paradosso, ovvero per poter andare a scuola occorre essere preparati, ovvero pre-preparati.

L’ingresso a scuola, dunque, non è più l’inizio di qualcosa ma già un obiettivo da raggiungere, pena l’esclusione, pena il constatare che non si ha un talento all’altezza del valore atteso.

E pensare che educare invece vuole dire condurre fuori, ovvero fare emergere prima di tutto chi siamo!  A me sembra invece che siamo tutti spinti a inseguire ideali di perfezione e di eccellenza ai quali cerchiamo di aspirare, per partecipare a una corsa infinita nella quale nevroticamente cerchiamo senza sosta un approdo, un modo per sentire che siamo arrivati. Dimentichiamo che in fondo si tratta di trovare noi stessi, di poterci guardare con gli occhi della comprensione e per poter fare questo dobbiamo riuscire a integrare tutte le nostre parti, la luce e l’ombra, la forza e la debolezza, la vita e la morte.

Allora mi sembra che le parole di San Paolo vogliono proprio ricordarci questo, cioè che partendo dalla nostra debolezza, accettandola, addirittura custodendola come parte di noi, possiamo approdare a un nuovo potere, un potere centrato sul limite, sulla prudenza, sulla consapevolezza delle paure e delle insidie della vita che però ugualmente possa spingerci oltre l’ostacolo, approdando finalmente a una dimensione di noi in cui possono egualmente abitare forza e debolezza, errori ed esattezze, potenza e impotenza.

In fondo per vivere non occorre la patente e per fortuna nell’esistenza non c’è il numero chiuso.

già pubblicato su @fuoritestata

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