Un tradimento che diventa spettacolo e l’incapacità di dare un nome alla rabbia

Un video diventato virale, una festa di matrimonio trasformata in un tribunale d’accusa alla promessa sposa fedifraga. Ma a chi e a cosa serve l’umiliazione inflitta alla donna?

Da qualche giorno imperversa in rete un video: un uomo, che poi scopro essere un banchiere, poco importa, organizza una festa con decine di persone per annunciare il matrimonio con la compagna che in quel momento è al suo fianco. L’uomo legge da un foglio, scritto di proprio pugno, un discorso romantico, che ben presto, però, ha una brusca virata: dichiara, infatti, di non volersi più sposare con la donna che lo ha tradito e la invita a partire in vacanza con il presunto amante.
Parole dure, che coinvolgono figli, genitori, e che sono pronunciate con la calma apparente di una rabbiosa vendetta.

Non è tanto sul tradimento, sulle supposte ragioni di lui o sul volto attonito di lei che vorrei soffermarmi, perché poco o niente si sa dei fatti privati. Quello che più mi sorprende sono i commenti che trovo in rete: “bravissimo”, “che signore”, “quanta eleganza nel dire”, “bravo, che lezione di vita le hai dato” “che persona educata”. Scorro i commenti velocemente, nella speranza di trovare una voce fuori da questo coro di voci maschili e femminili. Cerco qualcuno che dica che la trovata non è affatto elegante, niente affatto signorile e che, in definitiva, tutta questa messa in scena è di una violenza ed aggressività inaudite.

L’umiliazione a cui la compagna viene sottoposta (e da cui lei sembra non riuscire a sottrarsi) e l’umiliazione inflitta a se stesso dicono di un disagio profondo, ma il pubblico che guarda e applaude, schierandosi rispetto a qualcosa di non noto e – mi pare peggio – rispetto alla meritata punizione a lei inflitta, richiedono una riflessione.

Certamente in questa vicenda, più di un sentimento è stato ferito, ma questo non può legittimare il castigo e la mortificazione, l’atto violento e narcisistico con cui l’uomo dà voce al proprio dolore.

Ma è il plauso a preoccuparmi, dicevo: l’urgenza di spettacolarizzare ogni cosa, da un piatto di portata, alle sfide senza senso, alla svalutazione dei sentimenti, mi pare faccia perdere di vista la capacità di dare il nome alle cose. E così, l’aggressività viene presa per calma, la violenza per signorilità, la gogna per giusta conseguenza, l’esercizio di potere per eleganza e lo “spettacolo” stesso per atto dovuto.

Un’arena che inneggia alla distruzione dell’altro, senza quasi rendersene conto, stravolgendo il reale significato di parole e azioni, ci ricorda, forse, quanto sia viva e radicata la smania di sopraffare l’altro, di punirlo, reo di aver abbandonato, ferito, tradito. Ci dice anche quanto tutto questo sia facile e veloce: il tempo di scrivere un commento, senza riflettere, ossia senza piegare (flettere) nuovamente (ri) il pensiero alla faticosa ricerca di significati differenti.

Mi chiedo se non sia necessario, allora, allenarsi a leggere e riconoscere i segnali della prevaricazione nascosti dietro la presunta “buona educazione” (così è stata definita la pacata e attenta lettura di un foglio), perché la violenza non è cattiva educazione, non si esprime (solo) attraverso parole urlate, parolacce e maltrattamenti, ma è presente e tangibile nelle modalità stesse con cui si sceglie di comunicare.

Certo, occorre dirlo, entrare in contatto con i sentimenti di perdita, di abbandono, di orgoglio ferito, è difficile e richiede maturazione, ma la rabbia distruttiva non può rappresentare l’unico antidolorifico disponibile!

Gia pubblicato su @fuoritestata

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