Non ho tempo, neanche per pensare

La complessità, da sempre, richiede la riflessione e la riflessione non è figlia della fretta. Cosa succede a una persona (e a una società) che il tempo non se lo concede più?

Veritas filia temporis dicevano i nostri antenati, la verità è figlia del tempo, ovvero affinché si possa comprendere bene un fenomeno, oppure vedere se determinate strategie funzionano o meno, occorre stare nel tempo.

Stare nel tempo però è un’operazione che non riusciamo più a fare, vivendo spinti da dietro e tirati in avanti. Lo spettacolo deve continuare, fermarsi per riflettere diviene una pratica assolutamente irricevibile, assolutamente inusitata.  Che ci piaccia o meno però le cose più importanti della vita, crescere i figli, apprendere un mestiere, imparare a pensare, riflettere, ma anche allenarsi, fare sport e arte, tutte queste cose sono il prodotto di un saper aspettare, ripetere, ricominciare e ricominciare ancora.

Stando così le cose, a me sorprende e rammarica al contempo che tutte le volte che siamo di fronte a situazioni complesse e gravi si cerchi sempre la via più breve in una continua corsa verso la risoluzione rapida del problema.  Spesso però i problemi, quelli veri, sono molto complessi, richiedono tempo, pensiero, attenzione costante. D’altra parte, la storia ci insegna che i movimenti culturali, il cammino del pensiero filosofico e scientifico si misura in decine di anni: tutti i grandi pensatori, da Giovanbattista Vico e i suoi corsi e ricorsi della storia fino a Kontratiev e le sue onde, ci hanno insegnato a usare come misura dei cambiamenti culturali, come unità minima, i ventenni, i secoli, unità di tempo rispetto alle quali i giorni, i mesi, perfino gli anni sono entità trascurabili.

Allora chi ha il compito di dirigere la società, nella politica, nella cultura, nell’economia, nella scuola, nelle arti, ha in qualche modo un obbligo nei confronti del tempo che consiste nel chiedere a se stesso e agli altri di saper aspettare, di accogliere la complessità, di continuare a seminare nella speranza che prima o poi qualcuno – con ogni probabilità non noi, ma i nostri figli – potranno abitare in un mondo diverso.

Dunque una funzione difficile da esercitare, soprattutto quando non si insegue la gestione della complessità ma si insegue il “like”, quando non si vuole affermare un’idea ma solleticare la pancia.

Per questo assistiamo normalmente a una specie di fiera campionaria delle imbecillità tutte le volte che il politico di turno o l’opinionista di grido ci suggeriscono una strategia vincente per risolvere problemi che ci attanagliano da anni.

“Chiudere i porti”, “Togliere le accise dalla benzina”, “Pene più severe”, “Castrazione chimica”… Certo, a vedere i risultati elettorali e gli “share” televisivi un esperto di comunicazione ci suggerirebbe di insistere su questa linea; il fatto è che però i problemi rimangono, si incistano sempre di più fino a divenire quasi irrisolvibili. Consapevole di cadere nella contraddizione di essere io, allora, quello della soluzione facile, penso che occorra dimenticare parole forti come risolvere, eliminare: tutte quelle parole che usavamo da bambini quando ancora immaginavamo che le cose fossero semplici e che fosse solo questione di volontà.

Sostituire a queste parole come migliorare, convivere, accogliere, adattarsi, tollerare: parole strane, dubbie, che non soddisfano nessuno ma che forse, nell’attesa che la bacchetta magica che abbiamo mandato a riparare torni, ci farebbero comodo.

già pubblicato su @Fuoritestata

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