Non c’è niente da capire: neppure questo articolo

Dedicato a quelli che vogliono ridurre alla ragione tutto ciò che è animale ed emotivo in noi… 

Avvertenza: è consigliabile la lettura di questo brano praticando una sistematica disattenzione anche incoraggiata dall’assunzione non molto misurata di alcolici che possano ottundere a sufficienza la vista precisa e razionale. In ogni caso non si tratta di una cosa seria.  

“Voglio solo capire il perché! Questo mi basta”

Quante volte ho sentito queste parole e tutte le volte, davvero tutte le volte, mi viene l’associazione con la canzone di De Gregori: “… e non c’è niente da capire…”

La prima cosa che sentiamo tutte le volte che la vita ci risponde male, tutte le volte che sentiamo di avere un inciampo, è la necessità di capire, il vizio antico, quello di cercare il guasto, il dente della ruota saltato, il solco che fa tornare indietro la puntina del giradischi. 

Quasi ci fosse sullo sfondo un modo giusto ed uno sbagliato di vivere e quindi ciascuno ogni tanto debba attivare il proprio gps per trovare le coordinate di posizionamento e tornare alla giusta opinione (ortodoxa). 

Molti di noi, di quelli che come me cercano di trovare il modo di sciogliere qualche nodo, sono davvero convinti che in fondo il nostro lavoro consista nel correggere, nel riportare a più miti consigli o ancor peggio di insegnare, addestrare, interrogare. 

Davvero paradossale se ci pensate che cento anni scarsi di psicologia possano aver reso chiaro un qualcosa che neanche la bibbia, il talmud, il corano, e poi dostojesky, tolstoj……

Il saggio Jung ci dice che tutte le volte che nella vita abbiamo la sensazione di aver capito una cosa è perché spesso siamo riusciti a nasconderne una parte. 

Amiamo e non ne sappiamo il motivo, poi un giorno qualcosa finisce ed allora vogliamo sapere il perché, vogliamo capire che cosa è che non va, cosa ha prodotto il guasto; ed il bello è che spesso lo troviamo… allora lì a dire che in fondo lo abbiamo sempre saputo, che la prossima volta però…

E pensare che siamo in massima parte fatti di corpo e non di pensiero, di emozione e non di ragione; ridurre alla ragione tutto quello che è animale ed emotivo in noi è, direbbero i filosofi, ontologicamente impossibile, ovvero è la natura di cui siamo fatti che ci impedisce di assoggettarci completamente al pensiero razionale, al capire. 

Questo, dal mio punto di vista, è fuori di dubbio un grande vantaggio se si accetta però il rischio di non riuscire a governare in modo decente l’animale che è in noi.

Animale può voler dire sicuramente violenza, morte, distruzione ma al contempo apre all’eros, alla passione, alla vitalità. Dunque senza l’animale rischiamo solamente di sopravvivere, ovvero di consumare una vita retta, opportuna, misurata, la vita di chi per non rischiare troppo sceglie di morire da vivo. 

Poi spesso, una volta che ci siamo assicurati di aver tenuto lontano le tentazioni e gli estremi, cerchiamo iniezioni di vita andando a sbirciare le vite dissolute e impossibili degli artisti, di quelli che hanno scelto di “vivere come dovessero morire domani”. Dunque una morte da vivi e un vivere traendo forza da tutto quello di giorno allontaniamo ma che la notte andiamo spasmodicamente a cercare.

Davvero complessa la vita per chi vuole tentare di avvicinarsi senza farla semplice, per chi voglia andare oltre (o forse fermarsi prima) della morale, della ragione, dell’educazione. C’è dunque una conclusione? Qual è di la parola che come dice il poeta “squadri da ogni lato l’animo nostro informe”?

A mio modo di vedere non ci resta che stare a guardare, sospendere il giudizio e, per dirla con Faber: “se non siamo gigli siam pur sempre figli, vittime di questo mondo.”

già pubblicato su @fuoritestata.it

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