
La gigantesca mole di informazioni sempre a nostra disposizione online rischia di farci perdere di vista una pratica essenziale per la conoscenza, che vale la pena riscoprire
― Ma come fai a saperlo?
― L’ha detto la televisione…
Fino a poco tempo fa si diceva così, era dallo schermo televisivo che uscivano piccole grandi e medie verità. In qualche maniera, quella che nel Medio Evo era definita auctoritas, ovvero la parola scritta da eminenti studiosi, filosofi, teologi, nell’era della televisione derivava da lì, da quell’aura di sicurezza quasi ontologica che arrivava dallo schermo. Ora, finito il tempo in cui la televisione era anche un luogo virtuale in cui si poteva fare esperienza di apprendimento (ricordiamo la funzione unificante negli anni ’60 della TV di stato), siamo stati catapultati direttamente nel mondo iperconnesso della rete.
Finita tutta quella fatica di sfogliare il libro, di cercare di capire in che modo riuscire a trovare le informazioni che ci servono: basta un click, una parola chiave e si dischiude davanti a noi tutto lo scibile umano che riguarda l’argomento che stiamo cercando. Tutto questo ha finito con l’amplificare il falso concetto di cultura intesa come complesso di informazioni, come nozioni. Insomma, cultura vuol dire anche sapere a memoria un sacco di cose, ricordarne i dettagli, riprodurre dunque la stessa logica computazionale che è alla base della rete, ovvero un complesso e gigantesco archivio di informazioni.
Ma al di là di questo, il punto a mio modo di vedere è un altro: la straordinaria disponibilità di informazioni online ha finito col trasformare ciascuno di noi in una persona portatrice di verità sul palmo della mano o — per i più aggiornati nella tecnologia — a portata di auricolare.
Questa sicurezza sta gradualmente portando ciascuno a non avere più alcun dubbio e, nel caso questa sgradevole pratica del pensiero si affacci alla nostra mente, basterà qualche rapido click a fugarlo.
La saggezza, dunque, così come la conosciamo, quel «sapere di non sapere» di socratica memoria, è diventata un retaggio del passato, come quando ci capita di vedere i filmini della nostra infanzia e ci vediamo goffi e insicuri nel non saper ancora camminare bene.
Qui però si tratta di ben altra cosa: la pratica del dubbio, l’insicurezza rispetto al pensiero e alla conoscenza, non sono un inciampo evolutivo, una modalità da superare; al contrario: sono il motore stesso della conoscenza. Il dubbio continuerà ad aprire nuove frontiere, ontologicamente provvisorie, a patto che ciascuno di noi non si risparmi la fatica e l’inquietudine che il pensare reca in sé, quella fatica e quell’inquietudine che però riescono a catturare l’informe e il nuovo che spesso si nasconde in quell’invisibile spazio tra le cose, uno spazio in cui la verità non riesce a entrare.
Concordo la riflessione che “il dubbio” ci rende umani, ci vota alla volontà di ricercare e infine di consapevolizzare. Fino a quel momento, disponibili ad apprendere ancora attraverso letture e confronti con gli altri analizzando. Fino a nuove frontiere di consapevolizzazione e viva ancora con il desiderio di scoprire. L’era dell’elettronica con le sue nozioni, mi sembra lasci troppo poco spazio all’analisi. E non ci rinuncerò mai.
sono d’accordo con Te Simona, anche se a mio avviso più lo spazio di analisi è ormai evaporata la possibilità di critica e la produzione di un pensiero che non sia esattamente quello dominante
concordo perfettamente cara Simona, la cosa più sconvolgente è l’appiattimento della dialettica