“Se volete un lavoro ben fatto in tempi celeri e in modo organizzato, incaricate del compito il collaboratore con il più alto carico di lavoro”, cosi Camillo Benso Conte di Cavour nei suoi diari in merito alla ristrutturazione di quella che sarebbe poi diventata la pubblica amministrazione.

Certo a leggerlo sembra essere un pensiero paradossale nel senso etimologico, ovvero che sovverte il pensiero comune (doxa). 

Come può la persona più affaccendata ed occupata essere la più indicata?

Il “tessitore” (così lo chiamavano) invece propone uno sguardo più attento, la persona che da sempre lavora molto, innanzitutto esprime passione ed interesse per quello che fa, ovvero si getta sui problemi anziché subirli, nel tempo poi ha per forza dovuto organizzarsi e dunque è padrone di un metodo.

Debbo dire che spesso questa massima  a me capita di ricordarla ad esempio tutte le volte che, colleghi ed amici mi propongono modalità di lavorare “smart” (così le chiamano) che riducono la fatica, che “si fa tutto con un click”.

Ecco allora che si erge silente e subdola l’inerzia del far meno che piano piano mi convince di non aver tempo, che sia meglio procrastinare, nascondermi dietro il monitor, attendere ancora un poco. 

Nell’inerzia rallentata del far nulla, nella nolontà,  come ci direbbe Schopenauer, ovvero l’ambizione ad essere assorbito nel nulla allora, l’arroganza dell’ansia si fa sentire e tutto si blocca.

Vero nemico dell’agire dunque è un combinato disposto (cosi direbbero gli avvocati) tra fatica del riprendere, paura di sbagliare, rinuncia al rischio di vivere… tutto questo diventa un muro a volte invalicabile e da lì in poi il fare stesso diventa in fondo un atto di violenza che sentiamo di farci tutte le volte che un po’ per coscienza ed un po’ per colpa, vogliamo tornare a fare.

A mio modo di vedere dunque nessuno deve sentirsi esente da questo rischio, che in fondo rappresenta una strategia economica nel breve tempo ma che poi può divenire un vero e proprio blocco.

In epoca di post Covid ad esempio abbiamo a disposizione mille perversi alibi per fare meno, per stare chiusi nella tana, per cedere alla nolontà. 

In fondo perché vedersi dal vivo, col rischio di doversi magari anche lavare e profumare, di vestirsi anche dalla vita in giù, di rinunciare alle pantofole, di combattere con l’aria di fuori, col traffico, con gli umani. 

Abbiamo le call, garanzia di movimento apparente, un po’ come quando corriamo sul tapis roulant e dunque non corriamo il rischio di esistere, facciamo lo stesso una gran fatica ma al contempo siamo sospesi, bloccati. 

Certo potremmo dire che in fondo il precetto di Cavour lo abbiamo rispettato, che lavoriamo di più ed in modo sempre più organizzato, anzi chissà cosa avrebbe pensato il Conte della rivoluzione tecnologica!

A me piace pensare invece che il rimando alla persona più affaccendata sia una indicazione chiara a mettere le mani in pasta, a sporcarci di cose di vita, lui che non era affatto lontano dalle tentazioni della vita stessa.

Allora in epoca virtuale potremmo declinare così il pensiero cavouriano: “se volete un lavoro ben fatto in tempi celeri e in modo organizzato incaricate i pochi che ancora sentono il peso del corpo, l’odore dell’adrenalina, il battito del cuore, insomma quelli che hanno il coraggio di agire.”

Solo ostinandoci nel resistere alla comodità dell’insostenibile leggerezza del virtuale e riappropriandoci del peso delle cose toneremo a vivere.

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