Serve capire la diversità per accettarla?

Il rischio è che questa comprensione porti poi all’idea della normalizzazione. Di far rientrare nei binari quello che a parer nostro ha deviato. Ma integrare la diversità vuole dire farla rimanere tale, trovare uno spazio nel quale possa permanere in virtù della sua differenza, continuare a stimolare, scandalizzare con il suo essere altro

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“Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal suo senza la necessità di accettarlo”; la prima volta che ho letto questa frase di Aristotele ho pensato prima che si trattasse di un refuso, poi di non essere d’accordo con il Magister. A volte certe cose però occorre lasciarle a decantare, come si fa con il vino, col formaggio e a volte accade che a un certo punto, quando più di tanto non ci pensi, arrivino delle immagini, delle sensazioni, roba sottile che però rimane a infastidirti e a dirti che ci sono cose che sfuggono, che – come la peperonata – si ripropongono ancora e ancora.

Mi sono chiesto: che nesso c’è tra educazione comprensione e accettazione? A me sembra che il filosofo ci voglia dire che l’educazione è quella dimensione dello spirito che rende possibile la convivenza di piani complessi ma tra loro connessi. Molti di noi pensano che capire la diversità, di per sé, ci porti ad accettare l’altro, a capirne le ragioni e – di lì – ad attivare un piano di integrazione. Aristotele ci mette in guarda da quest’illusione che è di fatto il peggiore degli inganni: se comprendo il pensiero dell’altro e lo trovo inaccettabile, dunque non è un pensiero degno o per converso capirlo mi obbliga alla condivisione. Così procedendo arriviamo ben presto e con una certa sicumera a dare il voto ai pensieri a dividerli i magri o grassi, alti o bassi stabilendo gerarchie e hit parade che creano perimetri, alzano steccati creano trincee e fossati. 

La parola chiave è dunque “educazione”, solo l’educazione ci può aiutare a tenere insieme gli opposti dando loro pari dignità, facendoli esistere in quanto tali, sospendendo il giudizio.

Pensate al rapporto con altre culture: spesso l’approccio di noi democratici di sinistra politically correct è quello di “capire per accettare”. Allora tutti lì, a cercare di trovare le ragioni nascoste del comportamento umano cercando di portarlo dentro il nostro perimetro, di digerirlo, di integrarlo. L’atto del digerire però non è altro che la scomposizione del complesso in elementi primi e la selezione accurata di ciò che ci deve servire e di ciò dobbiamo espellere. 

E il fenomeno originario? Non c’è più, assimilando l’alterità la divoriamo e la differenza di potenziale tra la nostra visione del mondo e quella dell’altro evapora, si perde nell’atto del falso capire. 

Esempi concreti: il fenomeno degli homeless, il fenomeno dei nomadi, la psicosi e via discorrendo, ogni forma di mondo, della vita, assolutamente altra, estranea, espulsa o da normalizzare. 

Siamo convinti tutti che queste modalità del vivere vadano capite nel senso di indagare profondamente le motivazioni che hanno prodotto la devianza dalla vita considerata normale? Allora dobbiamo dare una casa ai senza tetto, una dimora ai nomadi, una normalizzazione a chi vive nel mondo psicotico, ecc. Come a dire che chi vive sotto i ponti non abbia senso e valore, chi vive in una roulotte non abbia capito il valore della stabilità e chi è preda delle sue paure debba redimersi. Al netto dei naufragi della vita, al netto delle situazioni di vite sfruttate ed abusate siamo sempre convinti che chi non vive come noi, che vive in modo incomprensibile vada integrato, redento, normalizzato?

Aristotele ci insegna che invece occorre creare una situazione in cui abbiamo il coraggio titanico di tenere sullo stesso piano ciò che siamo e ciò che non siamo, distinguendo la voglia di capire dall’obbligo di doverlo accettare. Forse così facendo scopriremo che integrare veramente la diversità vuole dire farla rimanere tale, trovare uno spazio nel quale possa permanere in virtù della sua differenza, continuare a stimolare, scandalizzare con il suo essere altro. In fin dei conti penso si tratti di ciò che è capitato a me con la frase di Aristotele: continua a essere per me difficile da accettare ma la sua permanenza nel mio mondo mi fa vedere cose che non riuscirei a vedere. 

2 commenti

  1. Ti trascrivo un breve passaggio dalla prefazione di “The Back Channel”, le memorie di William J. Burns, che è considerato il miglior diplomatico americano di carriera degli ultimi cinquant’anni, oggi direttore della CIA (Random House, 2020):

    “La diplomazia è un’attività umana fondata sull’interazione tra le persone. Spesso noi americani siamo tentati dall’idea che il mondo ruoti intorno a noi, ai nostri problemi, alle nostre analisi. Come ho imparato a mie spese, altre persone e altre società hanno le loro proprie realtà, che non sempre risultano gradevoli per noi. Ciò non significa che dobbiamo accettare queste prospettive o affrontarle con indulgenza; ma capirle è il punto di partenza di qualsiasi assennata attività diplomatica”.

    Come dire che gli estremi (lo spione e il Magister) qualche volta si toccano.

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