Riesco davvero ad ascoltarti solo se scendo dalla pianta

E’ la dimensione passiva del sentire che apre alla possibilità di instaurare una vera relazione 

Il linguaggio mi ha sempre affascinato, la heidegeriana “dimora dell’essere” mi ha sempre attratto, come se ci fosse sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che non si riesce bene a spiegare.

Questo sottrarsi continuo, questo saper attrarre e distrarre aprendo un caleidoscopio di  significati, da una lato ci lascia spesso frustrati ma, se abbiamo l’ardire e l’ardore di andare oltre, ci permette di accedere ad altri mondi, altri significati, altre dimore. 

In fondo il nostro lavoro di “psico-qualcosa” consiste proprio in questo, nel cercare di entrare nel linguaggio dell’altro; ogni termine è una porta, una finestra, un vicolo, una piazza, una radura. 

Ed il nostro strumento è uno solo: ascoltare. Nel delirio del mondo degli specializzati lo abbiamo chiamato tecnica, ascolto attivo, riformulazione, attenzione fluttuante…. Lo abbiamo declinato a seconda dei paradigmi, a seconda delle mode, in fondo però è sempre e solo quello: ascoltare. 

Cosa curiosa: gli inglesi hanno tre verbi che descrivono questa faticosa dimensione: to hear (ascoltare passivamente), to listen (ascoltare con attenzione), to feel (ascoltare col cuore).

Noi invece abbiamo due parole: ascoltare (con l’intenzione) e sentire (passivamente). 

 In realtà sentire ha un doppio significato, sia una funzione passiva (sentire il suono del clacson) che sentire col cuore, intuire (sentimento). 

Molto interessante a mio modo di vedere che sia proprio la dimensione passiva del sentire che apra al cuore, al sentimento, all’intuizione, quasi stessimo dicendo che l’ascolto vero, l’immersione della e nella relazione sia in qualche modo nemica dell’intenzionalità, del controllo. 

A conferma di ciò il grande Eugenio Borgna, ipnotizzatore di platee ancora a 90 anni, ci confidò: “Spesso quando inizio a parlare non so bene che cosa voglio dire e dove voglio arrivare”.

Allora forse tutta questa attenzione alla tecnica, alla precisione, al cercare e trovare la parola giusta paradossalmente può portarci fuori strada e come esseri deformi (come già Agostino nel “De doctrina cristiana” ebbe a dire) ci apprestiamo alla relazione con l’altro; esseri che sembrano uscire da un quadro di René Magritte, senza volto e senza pancia.

Nell’ascoltare misuriamo, correggiamo, scriviamo sulla lavagna l’elenco dei buoni e dei cattivi, del giusto e dello sbagliato, del bene e del male.

E così se siamo psicologi cerchiamo la verità, se siamo insegnanti cerchiamo le date, i nomi i numeri e sullo sfondo prima impallidisce poi si offusca ed evapora la relazione. 

Relazione è partire dall’altro, da dove si trova l’altro, andarlo a trovare, respirare l’aria stantia del suo mondo, sentire la legna che scoppietta nella stufa, l’odore della minestra lì a scaldare, la polvere che appanna le lenti degli occhiali. Stare, stare, stare.

Ma stare è molto impegnativo, ci fa scendere dalla cattedra, posare il camice, riporre la penna rossa e quella blu. Allora e solo allora, disarmati e nudi, fragili e tremanti, possiamo dare all’altro la sensazione di sentirsi ascoltato magari senza troppe parole o con qualche inciampo. Perché, si sa, i buoni ascoltatori spesso sono distratti e duri d’orecchio. 

già pubblicato su @fuoritestata.it

2 commenti

  1. Scendere dalla pianta..tornare alla terra, verso il cuore. Non rimanere imbrigliato nei rami, nelle circonvoluzioni cerebrali, ma sfrondare e scendere,
    toccare e sfiorare ciò da cui tutto ha inizio: le radici della gioia e del dolore, dell’amore e della rabbia, i sentimenti e le emozioni che hanno bisogno di emergere e di essere ascoltate.
    Grazie.

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