Non serve fare i seri per occuparsi di cose serie

La fantasia, il sogno, la capacità di non prendersi troppo sul serio: e se fossero proprio queste le chiavi per comprendere al meglio se stessi e gli altri? E, forse, anche le chiavi per stare al meglio nella relazione d’aiuto

“I bambini trovano tutto nel niente, gli adulti niente nel tutto”. Così il sublime Giacomo Leopardi descrive una delle caratteristiche più importanti della fanciullezza: la fantasia, il sogno a occhi aperti, i repentini sbalzi dell’umore, l’irrequietezza. Io da bambino ero un piemontese anomalo, che apparteneva a una famiglia altrettanto anomala; non era insolito infatti sentirci urlare, fare fracasso, cantare… tutte quelle condotte riprovevoli nella cultura delle persone serie. E non era insolito – infatti – neanche che venissi ripreso per non essere sufficientemente composto, sufficientemente serio. Devo dire che questa storia della serietà mi ha perseguitato per tutta la vita e anche oggi emerge, anche se in modo del tutto singolare e in discontinuità col passato.

Sarà forse per uno strano scherzo del destino o per introiezione dei rimproveri giovanili ma sono stato sempre attratto dalle tematiche più complesse, più profonde, come a dire le più serie.  Negli studi musicali ero affascinato dalla teoria e dalla direzione d’orchestra, negli studi universitari dalla filosofia e – a essere precisi – dalla filosofia più filosofica, cioè dalla filosofia teoretica.  Così, mentre nella vita di tutti i giorni continuavo a essere il solito “pirla” (così dalle mie parti si dice delle persone allegre e per certi versi superficiali), negli studi e sul lavoro mi andavo ad occupare delle tematiche più profonde, dolorose, serie.  Mi sono dunque occupato di musica classica, di psichiatria, di fine vita, di filosofia morale e proprio all’interno di queste pratiche ho scoperto la profondità e l’utilità del non essere seri. 

Il mio maestro da subito me lo disse ma la hybris della gioventù mi impedì da subito di apprezzarne la profondità: “Getta i manuali e leggi la letteratura, leggi i russi, i giapponesi, gli americani… leggi tutte le storie, tutte le vicende che vengono narrate; in fondo la pratica clinica è un po’ come leggere un libro, ogni persona è un racconto che va conosciuto e interpretato”. E io pensavo invece al transfert, al controtransfert, all’io all’es ed al super io e via discorrendo.

Ora che faccio il mio mestiere da un po’ di tempo, che i manuali li ho letti e dimenticati, ora che sono più sicuro e posso fare a meno della serietà, mi sento più vicino alle persone che seguo leggendo un buon romanzo, facendo vagare la fantasia e inseguendo talvolta il loro delirio, cercando di dare forma a ciò che sentono, ai loro bisogni.

Che bella scoperta quella dell’efficacia del non essere seri! Come a tirare un po’ il fiato: in fondo la non serietà ci dice che andiamo bene proprio come siamo, che non abbiamo bisogno di contenerci, di stare abbottonati, come direbbero in Piemonte.  Non solo, a mio modo di vedere il mondo delle persone che non si prendono sul serio è un mondo in cui ci sono più possibilità di adattamento, più strade, più mondi, più storie. Le strade serie ci fanno guidare con più sicurezza, con maggiore tranquillità ma ci conducono dove siamo già stati, non ci permettono di scoprire cose nuove.

Occorre dunque cambiare strada, ovvero divertirci, cambiare direzione con la pancia inquieta e la mano tremante ma bramosi di nuovi appetiti, di situazioni insolite.  Ora, dunque, ripensando alla mia infanzia mi sembra che in realtà è da bambini che abbiamo tra le mani le chiavi della vita e occorre solo darsi il tempo di crescere per poter trasformare i rimproveri in consigli, le vergogne in orgoglio, il niente nel tutto. 

già pubblicato su @fuoritestata.it

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