La pratica rivoluzionaria dell’impotenza

“Il re d’Egitto disse alle Levatrici degli Ebrei: “Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, potrà vivere” (esodo 1,15-16)

Questo il celebre passaggio biblico delle Levatrici di Egitto e della missione a loro affidata dal Faraone di “risolvere”, in qualche modo, il problema della profezia che annunciava la venuta di un usurpatore del regno venuto dal popolo di Abramo. Che la storia del popolo ebraico sia costellata da sacrifici e persecuzioni purtroppo non è affatto una novità, singolare invece a mio parere è la strategia che le levatrici (casta molto potente nella società dell’epoca) decidono di opporre al potere. Esse spiegano infatti al Faraone che il parto è un processo molto complesso e che non riescono a capire se il nascituro è maschio o femmina fino a parto ultimato e dunque sono impossibilitate nel sopprimerlo. 

Siamo di fronte, dunque, a una delle prime ribellioni alla legge dell’uomo, che di fatto pone l’uomo al di sopra della sacralità della vita e della legge di Dio. La ribellione però non diviene momento di propaganda, momento muscolare in cui far prevalere l’una o l’altra parte. La mossa delle Levatrici, la loro saggezza tutta femminile si esprime nella rinuncia al dire l’ultima parola, in una logica da “mi piego e non mi spezzo”, meno gratificante dal punto di vista narcisistico ma molto più efficace per chi vuole portare un servizio alla comunità umana senza la necessità tutta “maschile” di voler essere autore e dunque meritorio della situazione. Uso le parole femminile e maschile cercando una dimensione che non sia strettamente legata al genere ma che colga gli aspetti culturali e antropologici di queste dimensioni. 

Rispetto alla proposta del potere che comanda l’irricevibile chiunque abbia una coscienza di sé, chiunque sia Giusto (nel senso che Gabriele Nissim dà alla parola), sente di dover opporsi, di dover operare per il cambiamento; attenzione però che le parole hanno una radura nelle quali si esprimono e la radura dell’essere nella quali le parole risiedono, comanda e determina la logica di fondo, il dentro ed il fuori di ogni discorso. 

Allora

la ribellione alla legge ingiusta in questo caso non apre all’inevitabile, al martirio, all’eroismo, al contrario sembra suggerire un linguaggio debole che rinunciando alla proprietà dell’agire, che non pretendendo di intitolarsi il merito dell’azione in realtà sembra divenire porta di accesso verso un mondo possibile in cui non sia necessario avere un perdente e un vincente. 

Certo, da sempre ci sono state figure che si sono opposte alle ingiustizie, tra queste non possiamo non annoverare Antigone, che sfida frontalmente il potere che comanda una condotta ingiusta e, per seguire la legge di amore, preferisce la fine, preferisce il suicidio. Dunque sembrerebbe, almeno per rimanere nella suggestione del dipolo maschile-femminile, che quest’altra donna abbia scelto il primo polo, consegnando alla storia le proprie spoglie mortali.

Queste storie a me sembra possano essere molto utili pensando ai tempi che stiamo attraversando; da un lato l’eroismo di chi preferisce togliersi la vita per non chinare il capo di fronte al potere che promulga una legge degli uomini che sovverte la legge di natura e dall’altra chi invece sceglie una via non rettilinea, usando una metafora scacchistica, di chi sceglie la mossa del cavallo, ovvero di sottrarsi senza opporsi, di raggiungere l’obbiettivo senza intitolarsene il successo, di chi alla retorica fallica del duro preferisce l’ironia e la leggerezza dell’impotente. 

Chi dunque non ha a disposizione la lingua del potere, chi proferisce comportamenti e non parole, riesce davvero ad entrare nella storia a modificare nel piccolo e nel quotidiano il proprio e l’altrui mondo, pensiamo a tutti i cooperanti, a chi attraversa il mare ed il deserto solo per garantire ai propri figli un futuro migliore, a chi “versa il vino e spezza il pane per chi dice ho sete ed ho fame”; eroi che non parlano con gesta epiche ma che camminano con i piedi sanguinanti immersi nell’humus (da qui li definiamo “umili”), col passo insicuro e malfermo dell’amore e con fiducia nella vita.

Dalla rinuncia alla paternità dell’azione nasce dunque la possibilità di preservare la vita, di custodirla e di portarla avanti, in questo senso Bertold Brecht fa dire al suo Galileo “sciagurato quel paese che ha bisogno di eroi”.  Forse allora usciremo da questo angolo buio della storia quando potremo dire per converso “fortunato quel paese che ha bisogno di levatrici”. 

Che poi a pensarci bene è come dire passare dal maschile al femminile. 

già pubblicato su @fuoritestata.it

2 commenti

  1. C’è una domanda alla quale non trovo risposta che mi viene suggerita dal tuo articolo (anche se non riguarda il cuore del tuo argomento): che cosa significa definire “di natura” una legge che per essere tale ha bisogno pur sempre di essere proclamata da uomini, sia pur diversamente titolati?

    1. Hai ragione, ma come sai il peccato di cui tutti soffriamo è proprio quel voler stabilire noi il cosa ed il come, fissare una prospettiva unica ed indiscutibile, usando una parola cara hai tuoi conterraneai di tanti anni fa la hybris.
      Certo se guardassimo il corso delle cose dovremmo anche prendere atto di come nel tempo la nostra centralità perde sempre più valore. Il primo fu Copernico a dirci che la terra non era al centro, poi arriva Darwin con la storia delle scimmie e ci giochiamo la paternità, ed infine Freud a dirci che neanche in casa nostra siamo padroni…. pazienza

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