È UN BUON MAESTRO SE PRETENDE DALL’ALLIEVO LACRIME E SANGUE?

L’insegnante aguzzino può anche ottenere risultati eccezionali, ma gioca pericolosamente con la salute psicologica del discepolo
Non so se capita solo a me, ma ci sono dei film che mi restano in testa per giorni e in genere sono quelli che ho rifiutato o non condiviso. Stanno lì e mi parlano. In questo caso, in verità, risuonano. Mi riferisco a Whiplash, di Damien Chazelle (2014), il film che racconta la storia di un ragazzo che studia musica e del suo maestro, brutale aguzzino, che con i suoi metodi di insegnamento lo porta al limite. Al limite della sua stessa vita. A forza di insulti, sudore e sangue (molto sangue!), Andrew effettivamente arriva a suonare la batteria in maniera magistrale. Ecco che allora arriva in me il fastidio, il «no», l’indignazione. Ma arriva perché mi rendo conto che ho un pensiero sullo sfondo che più o meno dice: «Perché no? Il metodo funziona!». Sì perché la tecnica di Andrew evolverà verso un alto virtuosismo, oltre ogni aspettativa (e lo so, rischio di spoilerare la trama, ma il film è talmente elettrizzante che consiglio comunque di guardarlo!). Certo, il nostro Andrew si gioca un po’ della propria salute psicologica, vanno a farsi benedire le sue relazioni affettive e sociali e il sangue sulle mani sembra essere l’ultimo dei mali, però… che musicista!Perché no, allora?
Forse no perché, in questo tipo di relazioni – così mi spiega A., una musicista professionista che ha studiato per anni con un maestro di questo tipo – ciò che si cerca davvero, mentre si migliora, o si tenta di migliorare, è soddisfare il proprio desiderio di essere amati dal maestro. «Farò ciò che vuoi, purché tu mi ami».

E così il performer che supera se stesso, alla ricerca del risultato perfetto, acquisisce, in realtà, un potere monco, incompleto, illusorio.

Perché se il potere personale è forte quando poggia su due gambe, diventa traballante se uno dei due appoggi è fuori da sé, dipendente da un’altra persona, in attesa dell’amore (approvazione, riconoscimento) che non arriva mai.

Forse no perché, per essere un buon maestro occorre saper «tacere l’amore», come ricorda Massimo Recalcati citando Jacques Lacan (L’ora di lezione). Mettere sì «in moto il desiderio dell’allievo», ma permettere, altresì, all’allievo di continuare a esplorare, lasciandolo libero di andarsene, invece di vincolarlo per farne una specie di clone o una proiezione della propria magnificenza. Insomma, come ci dice la parola – “arte” significa etimologicamente andare verso – l’artista intraprende un viaggio, parte alla ricerca: allargando un po’ il discorso, allora, credo che possa essere buono per l’allievo anche trovare il proprio passo, scegliendone sapientemente il ritmo.

C’è un altro aspetto mi pare, che è il tentativo di eliminare la propria debolezza, l’errore, e con essi la propria fragilità, che però sono proprio gli elementi che servono, tragici certo, ma fondamentali, per essere artisti nel senso più stretto.
In questa folle corsa verso l’alienazione da sé, così come è raccontata da Chazelle, e non tanto lontano dalla realtà, si rischia forse di perdere anche la capacità di decidere, di scegliere, o per meglio dire la responsabilità, presi all’interno di un gioco perverso di reciproco controllo.

Metto da parte l’indignazione, allora, e mi chiedo se forse un buon maestro non sia colui che aiuta l’allievo a scoprire non tanto il suo lato onnipotente, quanto la sua «divinità», per dirla con Giordano Bruno: non dimentichiamo che siamo divini, dice il filosofo, «che siamo noi la causa di noi stessi» e «possiamo modificare il corso degli eventi, persino lo Zodiaco»!

®️già pubblicato su: www.fuoritestata.it 

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