COVID/ Dove vanno i nonni quando muoiono? Come spiegare la morte a un bambino. Una intervista a Damiano Rizzi, in geni.it una newsletter dedicata ai genitori ai tempi del Covid-19.

Damiano Rizzi

geni sta per «genitori», ma anche per «genio», ossia quella cosa indispensabile che serve a tirar su dei figli. La newsletter nasce da un gruppo di persone che vuole raccontare il lato B della genitorialità. Quindi la parte divertente/drammatica al di là di quella mitologica. I padri al di là delle madri. La famiglia allargata (zii, nonni, compagni, ex mariti, tate, amici) al di là di quella delle statistiche. Insomma: forniamo soluzioni, storie e stratagemmi su come sfangarla.

Io ho dato il mio contributo al primo numero con questa intervista:


Covid/dove vanno i nonni quando non ci sono più? Come spiegare la morte a un bambino

Tra le Barbie, le Lego Friends e lo slime dei Me contro Te, Sofia ha chiesto a Babbo Natale anche che il nonno torni a casa. Carlo, un uomo della provincia di Milano di 77 anni, a novembre è morto di Covid. «Era cardiopatico, ma stava bene. Ha iniziato con una febbre e due settimane dopo è finito in rianimazione. Ci manca a tutti terribilmente», ci dice Francesca, sua figlia, «ma chi sta soffrendo di più è la mia bambina». Sofia ha 6 anni ed è cresciuta a casa dei nonni. Carlo andava a prenderla a scuola, l’accompagnava a nuoto, l’aiutava nei compiti. «Lei adora i miei genitori, e oggi senza il nonno si sente persa».

Come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, l’età media dei 66 mila pazienti deceduti per Covid è di 80 anni. Nonni che un giorno sono scomparsi dentro un’ambulanza, prelevati da quegli strani signori con le tute bianche che si vedono in tv, rimasti soli nel momento più difficile della loro vita e mai più tornati a casa. 

È quasi un anno che i bambini sentono parlare di coronavirus, che vanno a scuola a intermittenza, che mettono mascherine, che non abbracciano, che non vanno a calcio, a pallavolo. «Quando questo virus colpisce le loro famiglie, i brutti pensieri possono prendere il sopravvento», dice Damiano Rizzi, psicologo e fondatore di SoleTerre Onlus, «gli adulti devono accompagnarli in questo passaggio preoccupandosi solo di una cosa: parlare con loro».

Dobbiamo dire la verità?
«Sì, certo. Se muore il nonno o la nonna, ai bambini va detto. L’errore più grande che si fa è esporli alla nostra paura della morte. Per un piccolo, non c’è niente di più insidioso del silenzio».

Come glielo diciamo?
«Non ci sono formule, dobbiamo stargli vicino con le parole, e ogni famiglia ha il proprio lessico, i propri riti. Il silenzio non è protettivo, ma risulta un divieto di conoscere, li fa sentire esclusi, non degni di partecipare al dolore familiare. Se tutti piangono perché loro non possono farlo?».

Perché sono piccoli e pensiamo che non abbiano gli strumenti per affrontare un momento difficile.
«I bambini hanno una cosa che noi adulti non abbiamo più così forte: il pensiero magico. Se coinvolti e guidati, questo potere viene in soccorso. Hanno degli stati mentali di negatività volatili. Si affidano ai grandi. E se la mamma e il papà danno le coordinate, loro ritrovano più facilmente la serenità».

Se i genitori sono distrutti dal dolore, come si fa?
«Il bambino soffrirà nel vederli star male, ma questa è la vita, fa parte della nostra esistenza. Anche in questo caso l’adulto dovrà far capire al piccolo quello che gli succede: “Mi hai visto piangere così perché mi manca tantissimo il nonno, ma ora sto meglio”». 

Ci sono dei segnali del bambino a cui dobbiamo fare attenzione?
«Alcuni stati d’inquietudine, tipo non dormire bene. Di solito sono momenti che passano da soli. Quando qualcuno che si ama muore, ci si deve abituare a un nuovo stato mentale e a volte anche pratico della vita. ”Il nonno non mi verrà più a prendere a scuola”, per esempio. Se il disagio psicologico persiste, è fondamentale affidarsi a dei professionisti».

Adesso Sofia ha paura che mamma e papà possano morire, come è successo al nonno.
«A Sofia va raccontato che questo virus colpisce soprattutto gli anziani, le si deve spiegare come funziona la vita, che quando si è più vecchi si è più fragili e che la morte è un passaggio. In inglese morire si dice “to pass away”, se si racconta in questi termini si toglie un po’ l’angoscia dell’idea della fine. Nella società contemporanea la morte è un tabù, è un concetto che abbiamo eliminato dalla nostra cultura perché ci spaventa. Ma esiste, parlarne è importante».


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