Come salvarci dalla dittatura delle notifiche

Un’illustrazione che raffigura una donna al centro di un gruppo di persone che sembrano tutte rivolgersi a lei, con diversi atteggiamenti. La donna sta tracciando per terra un cerchio intorno a sé.

La nostra vita è scandita dalle notifiche: chat, social e mail nello smartphone che è parte integrante del nostro quotidiano, delle nostre relazioni e delle nostre vite. Molti lamentano e soffrono un elevato livello di stress dovuto proprio alla necessità di rispondere agli innumerevoli stimoli che punteggiano le nostre giornate e parcellizzano la nostra attenzione.

Notifiche, chat, risposte, chat di gruppo, altre notifiche… Il nostro quotidiano è scandito da messaggi continui che partono e arrivano come gli aerei sulla pista di un grande hub internazionale. Quelli delle chat di gruppo, poi, raggiungono velocità inaudite, dato il numero di partecipanti, senza considerare che c’è il gruppo dei colleghi, quello della classe del figlio, quello per il cinquantesimo del capo o per la festa di famiglia. E noi lì, sempre più in ritardo, con quella sensazione costante di incompiuto, sempre a dover rendere conto.

A complicare le cose poi ci sono i baffetti, come li chiamo io, ovvero le notifiche. Un baffetto grigio quando il messaggio viene inviato, due baffetti grigi quando il destinatario lo ha ricevuto e poi, quando il destinatario finalmente apre l’applicazione, i baffetti che diventano magicamente blu, e noi tutti rassicurati dell’avvenuta consegna e lettura della comunicazione. E, a quel punto, in attesa di una risposta.

Una volta c’erano le raccomandate con ricevuta di ritorno, dovevi compilare un foglio in duplice o triplice copia e giorni e giorni dopo tornava indietro una sola copia, come un piccione viaggiatore, a dirci che il messaggio era stato recapitato. Ora basta un clic, qualche secondo e siamo padroni del mondo.

Tutto questo su molti di noi aggiunge pressione a pressione, perché a questa velocità bisogna star dietro, costringe l’altro come noi stessi a dover rispondere al più presto, a continuare la catena infinita di cortocircuiti, a sentirsi assediati, controllati… e in colpa se in ritardo.

Per fortuna, la tecnologia viene incontro alle nostre debolezze, le notifiche possono essere disattivate e si può fare in modo che l’altro non sappia se il messaggio è arrivato oppure se sia stato letto, così come si può evitare che lo smartphone segnali ogni nuovo messaggio in maniera evidente.

A me, attratto da sempre dagli aspetti simbolici del nostro agire, tutto questo ricorda in qualche modo uno dei classici metodi che utilizziamo per conquistare la libertà: mi sento libero se mi nascondo, come se la conquista della libertà passasse attraverso l’impossibilità del controllore di controllarmi, come quando da ragazzini si tornava a casa con le scarpe in mano per non svegliare papà e mamma se si faceva troppo tardi, che altrimenti…

La libertà diviene dunque possibile al prezzo del fare un passo indietro, quasi noi non si abbia il diritto di essere in ritardo, di essere momentaneamente assenti, di avere i nostri tempi di risposta. Sembra dunque che ci siano solo due modi di riconquistare la libertà: nascondersi nel buco e tenere le scarpe in mano oppure urlare a squarciagola: «Io sono liberooooooo! E rispondo quando mi pareeee!», come fosse un atto rivoluzionario.

Allora avanzerei un pensiero debole, sommesso, insomma – come direbbe il poeta – un belato: e se invece lasciassimo le cose come sono? Se il messaggio arrivasse, il baffetto diventasse blu e noi, coi nostri tempi – qualunque essi siano – decidessimo di rispondere (o di non farlo)? In fondo, non dobbiamo liberarci dal controllore esterno, ma da quel tiranno che ci portiamo dentro, e che ci comanda di essere sempre adeguati, presenti, responsivi, educati, corretti.

Ovviamente non possiamo metterlo a tacere, ma non è mica detto che si debba sempre ascoltarlo.

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