
Quando possiamo dire che di fronte a un torto è stata fatta giustizia? Se è la vendetta a guidarci, non facciamo che proseguire proprio in quella modalità che abbiamo criticato o contro cui abbiamo lottato
«[…] e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio, non conoscendo affatto la statura di Dio». Così Faber, il maestro poeta e cantastorie della pochezza umana, ci racconta la storia di un nano che silenziosamente e caparbiamente riesce a studiare e a diventare giudice. Finalmente, dunque, raggiunta la statura elevata che il suo ruolo gli dà, riesce a compiere la sua vendetta e a mandare a morte tutti quelli che, per tutta la vita, lo avevano guardato dall’alto in basso, ricordandogli la sua pochezza, i suoi scandalosi attributi.
Alcuni di noi direbbero che così giustizia è stata fatta, almeno la giustizia del contrappasso dantesco, della Torah, di quell’occhio per occhio che sembra appianare le ingiustizie, che porta luce nelle tenebre. Poi a un certo punto arriva un tale, palestinese da parte di madre, a scombinare le carte, a portare caos nell’ordine. Ecco allora la misericordia che non toglie il peccato ma riesce a sentire e vedere l’umano che c’è nel peccatore.
Con la misericordia, dunque, per la prima volta viene separato l’atto deviante da chi lo compie e dunque possiamo dire che inizia il diritto, almeno nel suo impianto ideologico, così come lo conosciamo ora.
Questo, almeno nella storia del pensiero dalle nostre parti; a me sembra che però se da un lato la formalizzazione del nostro vivere si sia evoluta, di fatto noi restiamo quelli di sempre; come ci direbbe il Qoelet: «niente di nuovo sotto il sole».
Ma prima di occuparci dei macro-problemi della società, prima di pensare a cambiare il mondo, a mio modo di vedere, è interessante vedere ciò che accade nel nostro quotidiano, nei rapporti tra le persone. Quanti nani che desiderano avere la possibilità di vendicarsi, impiegati che diventati dirigenti vessano e mobbizzano i sottoposti, nuovi entrati messi in difficoltà dai senior, come ai tempi del servizio militare con il nonnismo.
Ci sarebbe da chiedersi che tipo di mondo immaginiamo, dunque, e pensare a come le regole che aneliamo cambino a secondo della nostra posizione nella “catena alimentare”. Facile da deboli chiedere trattamenti più umani, difficile da forti praticarli e fare esercizio di resistenza agli appetiti che la condizione di superiorità implica. In fondo, è più semplice la via del suprematismo, dell’homo homini lupus, tutto diventa chiaro, il potere diviene un diritto, la fragilità una colpa, come nello stato di natura, in fondo, no?
Pesce grande mangia il pesce piccolo, il leone divora l’antilope, però così pensando dimentichiamo molte cose di capitale importanza: la cultura, ovvero l’esercizio del pensiero critico, l’empatia, il desiderio di lasciare in eredità un mondo migliore per i nostri figli, tutto questo ci impone di vedere il mondo ogni tanto dal punto di vista dell’antilope o del pesce piccolo, anche perché ci vuole davvero poco: la rottura di un legame, un licenziamento, una malattia: a volte veniamo di colpo precipitati in fondo alla catena e, allora, sarebbe bello che chi in quel momento è nella posizione del leone esercitasse la misericordia.
L’augurio, visto che siamo nel periodo di Avvento, dunque, è quello di divenire leoni con il ricordo vivido di quando si era antilopi, pesci grandi dalla memoria lunga e che rivedono nel pesce piccolo ciò che erano e resistono al richiamo della supposta legge di natura. Ma questa mi sembra solo una bella favola, e forse allora la via di uscita è continuare a credere alle favole.