Abbiamo perso la faccia?


Cosa dice di noi al mondo il nostro volto? Come ci poniamo di fronte all’altro e come osserviamo il volto dell’altro, con quali lenti? Col vis-a-vis abbiamo perso dimestichezza e, forse, la colpa non è tutta delle mascherine

“Il giudice giudica dalle prove, non dalle facce”.

In una scena della fiction Mare Fuori (sono in ritardo, la sto guardando su Netflix), il comandante del carcere minorile di Napoli risponde così alla guardia che tenta di perorare l’innocenza di un ragazzo, appellandosi alle fattezze del suo volto. Chi ha lineamenti così acerbi e delicati non può agire un delitto tanto grave. 

Il comandante ribatte con la battuta d’apertura e noi non possiamo non essere d’accordo. Di fronte a un crimine, lo stato di diritto scavalca le “apparenze” e impegna i suoi periti a scandagliare riscontri, processare dati, esaminare accadimenti e contesto. L’obiettivo è espungere il più possibile il residuo di soggettività che è sempre intrecciato ai fatti nelle vicissitudini umane e che rischia di inquinare, a forza di impressioni, il “giusto giudizio”. 

D’altro canto, sappiamo che la controversa tesi lombrosiana del “delinquente nato” – colui che sarebbe per corredo genetico predisposto a violare il patto sociale e che mapperebbe questa sua inclinazione nella morfologia del volto – è stata ampiamente superata da nuove teorie e robuste ricerche interdisciplinari. Di certo, una vittoria dell’umanesimo contro le secche del determinismo: non c’è nessuna fisionomia che possa predire la fenomenologia del comportamento. Il nostro bisogno di certezze rimane, di nuovo e ancora, senza assicurazione.

Ci si può chiedere però se, nel liquidare la formula che derivava il carattere dalle caratteristiche del viso, non abbiamo perso anche la faccia. O meglio, un’attenzione speciale al geroglifico del volto umano, per dirla con Schopenhauer. L’attenzione che ha ispirato i più grandi romanzieri (restano indimenticabili il profilo della Monaca di Monza tratteggiato dal Manzoni e i tanti visi scolpiti dalla penna di Dostoevskij), nonché appassionato i maestri del ritratto in pittura (e penso su tutti ad Antonello da Messina e alla sua Annunciata), fino a creare la cifra estetica di alcuni fotografi particolarmente talentuosi (tra i tanti, l’iconico Steve McCurry e il recentemente scomparso Giovanni Gastel, che “inquadrava i volti e ne catturava l’anima”). 

Tutti casi dove, a mio avviso, il confronto con il volto non chiama in causa il giudizio sull’altro, né pretende risposte. Protagonista è piuttosto la curiosità intesa come interesse, partecipazione, richiamo dell’intelligenza e moto dello spirito a entrare in dialogo con qualcuno, finanche con una parte di se stessi, se crediamo che i personaggi della letteratura siano la proiezione di una scheggia dell’universo privato di chi li ha creati. Al centro di tutti questi movimenti dell’arte intorno al volto mi sembra insomma riposare una postura di osservazione protesa a cogliere, sulla faccia di una persona, quelle tracce imperscrutabili della sua domanda d’essere che proprio qui, nel punto del corpo più nudo ed esposto, si velano e rivelano di continuo. 

La sfida che intuisco, dunque, è a calare nel quotidiano questa strana specie di ascolto visivo che restituisce al volto la sua dimensione di enigma e di appello. Dall’incrocio di sguardi tra una madre e il suo bambino appena entrato nel mondo nasce infatti l’alfabeto della relazione. Dal viso dell’altro che interpella ognuno di noi e disarma la nostra indifferenza scende, per Emmanuel Lévinas, il principio dell’etica. E se consideriamo una delle origini più accreditate della parola volto – che rimanderebbe alla radice val da cui anche volere – la nostra faccia è lo specchio del desiderio, il vero motore dell’esistenza.

È però una partita non facile, quella che ci aspetta, se ci preme ritrovare la sacralità del volto umano. Non solo perché negli ultimi anni l’incontro vis-à-vis è stato spesso sostituito dalle riunioni virtuali. E nemmeno per il sacrificio imposto a lungo dalla mascherina all’immenso potenziale espressivo della nostra faccia. La difficoltà più grande a mio parere è figlia dell’abitudine, della fretta e di una difesa.

L’abitudine di guardare attraverso gli schermi – magari cellulare e PC contemporaneamente – ci ha educato alla logica del frammento. La mente si divide tra mille dettagli, smarrendo spesso il quadro d’insieme. Crediamo di poter sospendere quando vogliamo questa attitudine alla rincorsa di stimoli, ma in realtà il mezzo modella l’esperienza, orientandoci a una nuova modalità del vedere, che poi si consolida. Il segreto del volto di una persona, invece, ci chiama a rinunciare alle visioni multiple per stare davvero in contatto. Esige una disposizione fatta di ricettività e voglia di scoperta. Solo così l’attenzione – la forma più pura di generosità per Simone Weil – ci aiuta a leggere nella linea di un sorriso, nella fuga di uno sguardo o nelle pieghe della fronte il racconto che il volto di qualcuno ci annuncia.

E la fretta? Chissà quanto impiegò Manzoni a descrivere Gertrude o che tempi si concedette Antonello per immortalare sulla tela i volti che ci parlano a distanza di secoli. Credo che comunque nessuno dei due abbia avuto quella “premura” che è il contrario della cura: un’ansia di bruciare e compattare i tempi, come se il tempo fosse maneggiabile quanto lo è un oggetto, come se il tempo fosse qualcosa che possediamo. Il mistero del volto, al contrario, può aprirsi solo alla pazienza. Una virtù lenta e impegnativa.  

Ma forse, ciò che più ha contribuito a farci “perdere la faccia” è stata una difesa. Un modo per eludere la paura che il nostro viso diventasse per gli altri una finestra spalancata sulle burrasche che affrontiamo non visti, sui nodi non sciolti dell’esistenza, sulle pagine meno nobili della nostra storia, sulla giostra delle emozioni che ci attraversano. Se è così, credo tocchi imparare l’umiltà e lasciare che il tu-per-tu con il volto degli altri sia davvero un rischioso incontro di risonanze, discromie e imperfezioni. Un gioco di chiaroscuri che, come mi disse una ragazza al termine di un percorso di gruppo, ci porta a scoprirci per scoprire che stare insieme fa (quasi) sempre la differenza.

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